domenica 13 novembre 2011

La Fonte Di Betta

LE VOCI DEI BOSCHI
“ La Fonte Di Betta”

Se vi capita di andare a piedi sui nostri Appennini, spartiacque naturale che divide la parte orientale della pianura Padana dalle colline del Mugello, tra i boschi di faggio solcati da numerosi corsi d’acqua puri e freschi, ogni tanto fermate il vostro passo e ascoltate il suono dell’acqua che borbotta leggera quando si incunea placida tra i sassi del letto del torrente, o rimbomba laddove accompagna la roccia in erte cascate, la voce del vento che spira violento incidendo il terreno e alzando nuvole di foglie dorate per incunearsi tra i rami spogli degli alberi simili a braccia nude che si agitano verso un cielo sconfinato, o a volte soffia lieve e scivolando accarezza dolcemente le fronde componendo armonie ineffabili.
Se avrete la fortuna di trovarvi in una giornata in cui il vento, l’acqua, i rami, le foglie, si radunano per raccontarsi vicende, avvenimenti di vita o di morte, storie di amori o di guerre, di cui sono stati antichi testimoni; sostate, sedetevi, chiudete gli occhi e ascoltate con il cuore i loro straordinari racconti, a me non capita spesso di prestare loro attenzione, perché la fretta mi priva di questi privilegi, ma quando ci riesco, vi assicuro che è una momento unico che merita di essere vissuto.
Pochi mesi fa, durante una bella giornata estiva, in una valle laterale del rio Rovigo in cui scorre un suo affluente denominato “Fosso dei Pianacci ”, mentre risalivo il sentiero che lo costeggia dal Molino dei Diacci a Capanna Marcone, giunto nelle vicinanze della strada forestale mi sono fermato vicino a una piccola fontanella delimitata da un cumulo anonimo di sassi, che un’umile targa definisce “Fonte di Betta”.
Vi ero passato vicino tante altre volte, sapevo la sua esatta ubicazione avevo assaggiato la sua fresca acqua che sgorgava dalla sorgente, ma quel giorno il mio animo mi ha chiesto di fermarmi e di riflettere per domandarmi: “perché mai una così insignificante fonte, come tante altre nelle vicinanze, avesse una denominazione precisa e che si fosse tramandata pervenendo fino a nostri giorni.
Ero seduto su un sasso con gli occhi chiusi assorto e immerso in queste considerazioni, quando improvvisamente si è alzato un venticello lieve, che danzando tra i rami ha generato suoni tra le foglie dei faggi, quasi di una voce umana, o almeno così mi pareva, mi ha accompagnato in una storia cantata e narrata dalle parole del bosco, che mi ha impedito di allontanarmi fino a che non è stata conclusa.
La collocazione degli avvenimenti esatta si è persa nel tempo, ma quasi certamente risale agli ultimi anni dal medioevo, su quei monti in quell’epoca erano ubicati ancora antichi manieri, guidati dai discendenti dei conti longobardi che avevano occupato la zona secoli prima e sparsi i primi borghi abitati quasi esclusivamente da gente umile e povera, che era soggiogata al signore del luogo.
La storia che ho appreso, raccontava che in quegl’anni nelle vicinanze, viveva una splendida fanciulla, che stava abbandonando l’età della fanciullezza lasciando i giochi infantili per sempre, per aprire il suo cuore ai primi palpiti dell’amore, era l’ultima figlia di un nobile del luogo il signore del castello di Lozzole, tale “Sigismondo Lo Sgerro”, noto per il suo violento carattere, che lo portava a scatti di rabbia incontrollata sia in battaglia che in tempo di pace.
La fanciulla, viveva felice e spensierata con la sua famiglia al castello, il padre, la madre donna Teofania e i due fratelli maggiori Grimoaldo e Ghildeberto, suo padre come spesso accadeva in qui tempi, l’aveva promessa in sposa quando era ancora in fasce, a un suo fedele alleato di tante battaglie più vecchio di molti anni, “Arnolfo Lo Sfregiato conte di Fornazzano”, si aspettava solo che la giovinetta giungesse al quattordicesimo anno per celebrare il matrimonio come stabilito.
Frequentava con assiduità il castello di Sigismondo un trovatore “Gualberto Da Susinana”, giovin di bell’aspetto e modi gentili, che cantava le gesta eroiche e l’amor cortese di cavalieri e dame, la fanciulla ne fu subito affascinata, prima dalla romanze che Gualberto cantava e suonava accompagnandosi con la ribecca, poi per entrambi scocco una freccia che un Cupido attento non avrebbe mai dovuto scagliare, facendoli perdutamente innamorare e seppur consci della impossibilità di poterlo vivere liberamente, si giurarono reciprocamente eterna fedeltà: “o avrebbero vissuto assieme o non si sarebbero uniti con nessun altro”.
Per poco tempo la tresca amorosa sfuggi alla famiglia, ma una volta venuto a conoscenza del sentimento della figlia per Gualberto, Sigismondo con modi tirannici e coattivi, proibì alla stessa di uscire dalla sua stanza fino al giorno del matrimonio con Arnolfo.
Giovandosi della momentanea assenza del padre e dei fratelli impieganti in una battuta di caccia, la fanciulla con la complicità della balia Eurinice, riuscì a far pervenire al suo amato una missiva, per concordava un appuntamento tra loro due e quando riuscirono a incontrarsi furono raggianti, si fusero subito in un’interminabile abbraccio, si scambiarono con estasi teneri baci, si promisero di nuovo eterna fedeltà per vivere il loro amore senza più ostacoli, si accordarono anche che il giorno prima di sposarsi la fanciulla sarebbe scappata dal castello, per incontrarsi con l’amato Gualberto lungo la vallata del Fosso dei Pianacci e fuggire in luoghi distanti e vivere sempre assieme.
Ma il perfido balivo del castello tale Aroldo, venuto a conoscenza delle intenzioni della fanciulla, riferì la tresca al suo padrone Sigismondo, decise allora una volta per tutte di dare una lezione a quel giovane trovatore che aveva avuto l’ardire di insidiare sua figlia’ già promessa ad altra persona.
Il giorno prima del matrimonio della figlia, Sigismondo e i suoi figli partirono di buon ora dal castello, per recarsi a cavallo nella vallata del Fosso dei Pianacci, si appostarono e aspettarono che arrivasse Gualberto da Susinana, appena sopraggiunse lo affrontarono con brutalità avendone presto ragione e lo pugnalarono ripetutamente lasciandolo morente vicino all’acqua del fosso.
Come convenuto tra gli innamorati, era anche scappata dal castello la fanciulla che ignara di quanto era accaduto al suo amato, stava correndo felice verso il loro incontro con l’animo pieno di amore desiderosa di vivere il suo travolgente sentimento, ma la sorte non era stata benevola con i due giovani, aimè che disperazione colse la giovinetta quando vide il suo bel Gualberto disteso sulla terra tra rivoli di sangue che scorrevano fino a colorare l’acqua del fosso di rosso, si precipitò su di lui lo abbraccio quasi pensando di arrestare così il defluire del sangue, appoggiò le labbra sulle sue cercando di ridargli ancora un anelito di vita, ma tutto fu inutile, Gualberto quel giorno invece della dolce amata aveva trovato la morte.
La fanciulla sconsolata gli resto accanto piangendo e disperandosi per molte ore, finché finite le lacrime e memore del giuramento che si erano scambiati: “o assieme o con nessun altro”, a poco a poco maturò dentro se il pensiero di cessare di vivere vicino all’amore suo e estratto uno stiletto che aveva con se, pronunciando il dolce nome dell’amato, se lo conficco con forza nel petto cadendo esamine vicino al corpo di Gualberto.
Solo più tardi suo padre Sigismondo, non trovandola al castello e con un funesto presentimento ritornò nel Fosso dei Pianacci e vicino al menestrello assassinato vide anche il corpo della figlia senza vita, si disperò si pentì ma tardivamente, per riparare in qualche modo all’efferatezza che aveva perpetrato, portò via i corpi dei giovani per seppellirli assieme come pensava fosse loro desiderio.
Le foglie degli alberi del bosco, l’acqua dei fossi e il vento testimoni smarriti di quel dramma, si commossero e per ricordare senza tempo quella tragedia, dove la fanciulla aveva fatto cadere le sue lacrime, fecero zampillare una fontanella a suo ricordo, custodendola e tutelandola per tutti questi anni, la fanciulla che si diede la morte vicino al suo amato si chiamava Elisabetta, da cui il nome “Fonte Di Betta”, Betta era il nome con cui Gualberto chiamava la sua amata.
Questa e altre storie continuano a narrarci i nostri boschi, vicende intrise della loro saggezza resa florida dai secoli vissuti, molte volte vere altre frutto della fantasia, ma sempre esortandoci ci invitano almeno finche è possibile a vivere la vita sempre con grazia.
Luigiotto della Maestà




martedì 1 novembre 2011

... in Val Rendena





.......e qualcuno preso da molto coraggio decide di avventurarsi in un'uscita del CAI di Faenza in Val Rendena.
Due giorni con le ciaspole ai piedi, il primo giorno 1200 metri di dislivello.....e mentre io Maria Rosa e Pier Luigi arrancavamo, Piero, non per niente il numero 1, saliva col passo dell'alpino stanco, senza una goccia di sudore.
Al nostro arrivo in cima, lui aveva già finito di mangiare.
Poi è cominciata la discesa e in alcuni casi é stata più difficile e avventurosa della salita.
Sulla neve fresca ci siamo lanciati di corsa lungo una china e i ruzzoloni non si contavano, la difficoltà maggiore era il rialzarsi in mezzo alla neve alta, magari caduti a testa in giù, vero Maria Rosa.
7 ore e più il primo giorno con una splendida giornata di sole, un pò meno la domenica iniziata con una nebbia fittissima al mattino che ci ha fatto cambiare itinerario, ma sempre molto bello e in ambienti suggestivi.